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Alessandro Costanzo
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Un “contenitore di umanità”: la project room di Alessandro Costanzo e Stefan Milosavljevic, Espoarte.
2019 | Matteo Galbiati
Ho sempre cercato il paradiso, ma ora punto sull’arte
Alessandro Costanzo e Stefan Milosavljevic,
a cura di Martina Campese and Raffaella Ferraro,
Galleria Punto sull’Arte, Varese, IT.
13.06.2019 > 27.07.2019
Cosa ha rappresentato per voi l’occasione di questa mostra-premio nata all’interno dell’Arteam Cup?
Alessandro Costanzo – Innanzitutto credo che quest’occasione abbia creato il presupposto per uno scambio poetico ed intellettuale approfondito, attorno ad un progetto comune che altrimenti non si sarebbe sviluppato in maniera analoga e con la stessa prerogativa. Il doppio intervento su uno spazio, frutto oltretutto di una selezione a priori a noi estranea, ci ha permesso di “modellare” l’idea in maniera corale, piuttosto che autonoma ed isolata, generando una proficua riflessione sul concetto esperienziale dell’abitare.
Stefan Milosavljevic – Ha rappresentato per noi una grande sfida per la necessità di doverci confrontare entrambi nello stesso momento in uno spazio limitato. Abbiamo pensato, così, di creare un luogo mentale, di passaggio, un’esperienza-dono con la consapevolezza che questo non avrebbe nutrito il nostro ego, bensì avrebbe creato rapporti e connessioni, probabilmente al di fuori del nostro controllo.
Perché avete deciso di lavorare a un progetto a quattro mani, e non avete voluto optare per la soluzione più “semplice” di una mostra bipersonale condivisa?
AC – L’intervento a quattro mani è stato dapprima accantonato e sottovalutato, ma poi è diventato quasi necessario, vista la volontà di entrambi di sviluppare il tema in maniera “installativa”, e conseguentemente al fatto di essersi resi conto che lo spazio non avrebbe avuto la forza necessaria per restituire una soddisfacente fruibilità a due distinti lavori. Abbiamo evitato di “semplificare” l’intervento perché spinti dalla necessità di sviluppare un progetto unico e di maggiore impatto, invece di produrre due lavori autonomi che si sarebbero “scrutati” a vicenda. Credo che l’affinità poetica del nostro “fare arte” abbia giocato un ruolo chiave, poiché in molte idee abbiamo sempre trovato soluzioni simili o comunque vicine al nostro modus operandi.
SM – Credo che le persone creino legami particolari in determinate situazioni di stallo, di fatica. Condividere le stesse esigenze e, di conseguenza, le stesse frustrazioni, comporta un avvicinamento e un’innata aspirazione all’avventura. Volevamo essere sensazionalistici e vuoti, fuori luogo, ma con metodo, e lo volevamo entrambi.
Come lo avete pensato e sviluppato? Su quali temi e contenuti avete interagito?
AC – Il progetto nasce da un forte bisogno di isolare e rendere indipendente lo spazio assegnatoci, giocando un ruolo ironico e sarcastico, abbiamo tentato di lavorare in antitesi al concetto di “casa” come luogo idealizzato, che ci era stato proposto all’inizio dalle curatrici, come fulcro comune delle nostre poetiche su cui aprire un dibattito e un dialogo. Di conseguenza abbiamo lavorato sull’esperienza di un “falso paradiso”, dove finzione e messa in scena, giocano un ruolo importante, sottolineando la natura illusoria di un “non luogo” etichettato dalle multinazionali del turismo come esperienza tropicale contemporanea e paradisiaca. Altro elemento cardine del progetto sono delle riflessioni, tratte dal saggio l’Eroe dai mille volti di Joseph Campbell, con particolare riferimento al mito della libellula, che abbiamo comunicato in due modalità, trascrivendole all’interno di tre poster e sotto forma audio riprodotta in loop continuo, all’interno dello spazio. I poster diventano “registratori cartacei” che acquisiscono l’esperienza, e sono messi in vendita come “souvenir” dell’evento.
SM – L’istinto era quello di creare qualcosa che non fosse tangibile, ma che facesse comunque parte della quotidianità. Un elemento che fosse di tutti e di ciascuno, qualcosa che, solo per un attimo, ti facesse sentire importante, forse unico. In verità abbiamo lavorato con i desideri e le frustrazioni delle persone, proprio ciò che ha permesso a me e Alessandro di arrivare a fare un progetto singolo. Sentivamo l’esigenza di creare un luogo domestico, ma globale che rispecchiasse un contenitore dell’umanità, ovvero la casa. Un elemento imprescindibile della nostra ricerca che in quest’occasione è stato sviluppato e sviscerato in maniera più mentale e impalpabile. Noi abbiamo cercato il paradiso nei piccoli frammenti di ricordi, nella mitologia, nella pubblicità, nell’estasi visiva e lo abbiamo formalizzato in una sorta di vacanza da tutto ciò che è vero e da tutto ciò che è reale. Ci siamo chiesti quale potesse essere il nostro fruitore tipo, a chi destinare questo nostro messaggio? Ci siamo quindi proiettati nel futuro, alle cinque del mattino con il sole ancora acidulo e l’aria pulita e abbiamo spiato da dietro la siepe una persona in bicicletta che si dirigeva al lavoro e che solo per una frazione di secondo, passando davanti alla vetrina dove è situata l’installazione, girava la testa verso di essa. Siamo convinti che questa frazione di secondo, in una maniera strana, astratta e forse improbabile, abbia creato un legame fra noi e questo lavoratore.
Quali connessioni avete mantenuto rispetto alle vostre identità e ricerche? Cosa è emerso di nuovo nel work in progress?
AC – L’identità o la ricerca su cui ruota tutto il mio lavoro è sottoposta all’intenzione coerente di generare nuove prospettive spazio-temporali, semanticamente leggibili come un intreccio di luogo e memoria o, proustianamente, di luoghi della memoria, nei quali il sentimento della perdita e l’atto del ritrovamento sono contigui, anzi si sostengono e giustificano a vicenda. Tuttavia l’affinità tematica e formale al progetto che abbiamo sviluppato è tipica anche del mio “fare” sia nell’utilizzo dei materiali che nelle modalità d’ideazione dell’atto poetico. Di conseguenza sento che il progetto sia stato concepito senza eccessive limitazioni identitarie e mantenendo un processo creativo coerente alle nostre ricerche.
Penso inoltre che da questa collaborazione sia emersa nel work in progress anche una sana contaminazione artistica, che probabilmente contribuirà a svelarci nuovi orizzonti futuri.
SM – Credo personalmente di aver mantenuto la necessità di confezionare la verità con una bella carta da regalo. Nei miei lavori persiste un rumore di sottofondo, una sorta di violenza con sorriso che è parte integrante di ogni mio progetto, ma che allo stesso tempo mi accompagna nella vita. Credo che da questo punto di vista l’opera si nutra di ciò che io vedo e di ciò che vivo, ed essa stessa diventa un altro corpo disperso nel ricordo. In Ho sempre cercato il paradiso ma ora punto sull’arte il progetto si arricchisce di un racconto contenuto, come ha accennato Alessandro, in L’eroe dai mille volti scritto nel 1949 da Joseph Campbell, studioso americano di mitologia e religioni, nel quale una libellula, fortemente attratta dalla luce a dal calore emesso da una candela, finisce per bruciarsi e disintegrarsi nell’aria, perché non ha saputo resistere alla tentazione. Episodi così drammatici, ma così cinematografici, sono spesso l’emblema della mia fascinazione. La differenza sostanziale di questo progetto rispetto agli altri è la sua formalizzazione esperienziale piuttosto che scultorea.
Cosa presentate alla fine in questa mostra? Ce la riassumete brevemente? Quali chiavi di lettura volete dare ad un possibile spettatore?
AC – Quello che cerchiamo di “vendere” è un’esperienza temporanea di una realtà distopica, chiusa e confezionata all’interno di uno spazio espositivo che diventa “palcoscenico” di un paradiso commerciale, identificato nelle spiagge tropicali idilliache che le agenzie turistiche, promuovono come soluzioni curative ai mali dell’animo. Il tema dell’abitare la casa si sviluppa quindi in “antinomia”, e da luogo accogliente e sicuro a cui ci si sente di appartenere, si trasforma in luogo fittizio e ingannevole esplicato nell’idea di Eden contemporaneo.
SM – Abbiamo lavorato ironicamente sul nome della galleria Punto sull’Arte cercando di creare uno slogan che fosse l’incipit di una storia divisa in tre parti. Una storia simile a quella della libellula, ma con protagonisti diversi. Questo perché ciò che è importante non è la libellula stessa ma la sua umanità, il suo lasciarsi trasportare dal desiderio, dal calore e dalla bellezza e finire per auto-negarsi e poi forse rinascere o sbagliarsi. I tre poster contengono ciascuno un’immagine esotica di palme che sono in procinto di sciogliersi, di abbandonarsi camuffando la propria identità. Abbiamo voluto così racchiudere l’esperienza del paradiso fittizio che abbiamo creato nella project room in poster numerati e firmati che si possono acquistare e portare con sé come frammenti di un’esperienza. Un’esperienza che inizia proprio nel momento in cui si torna alla propria quotidianità e nelle proprie case. C’è da parte nostra un velato desiderio di appartenenza ad una comunità, all’umanità e sempre velatamente il nostro scopo ultimo era quello di far percepire a tutti i fruitori questa bellezza.
Com’è stato lavorare insieme (e a distanza)?
AC – All’inizio pensavo sarebbe stato più complicato, ma avendo a disposizione lunghe tempistiche, siamo riusciti ad organizzarci per tempo su ogni fase, alternando periodi di riflessione autonoma e momenti di discussione e confronto. Lavorare insieme a Stefan e alle curatrici è stato stimolante e proficuo; dopo una prima fase d’assestamento il progetto ha iniziato a virare per il verso giusto e da lì è stato tutto molto coinvolgente.
Sicuramente incontrarsi e lavorare di persona sarebbe stato diverso soprattutto nelle ultime fasi, quando abbiamo iniziato a concretizzare le idee, a scegliere i materiali e lavorare ai poster, dove un confronto diretto avrebbe sicuramente velocizzato i processi.
SM – Difficile e divertente allo stesso tempo. Grazie alle nostre due curatrici, Raffaella Ferraro e Martina Campese, che sono state nostre uniche alleate sin dall’inizio, abbiamo avuto modo di realizzare un progetto impegnativo ma con grandi soddisfazioni.
Quali sono i vostri prossimi impegni e progetti?
AC – Dopo un periodo di residenza a Bruxelles, necessario per approfondire alcuni nuovi aspetti della mia ricerca, ho iniziato un nuovo ciclo di lavori che vedranno luce nei prossimi mesi. Sicuramente il fatto di vivere in un’altro paese e confrontarsi con un sistema dell’arte “diverso”, visitare nuovi spazi e frequentare circuiti artistici internazionali, ha contribuito ad accrescere la voglia di muovere verso nuovi confini.
SM – I miei prossimi progetti aprono strada ad un nuovo processo creativo, un metodo che genera rifiuto e protezione allo stesso tempo. Essi vengono realizzati a partire dall’esperienza personale di identità di genere in forte contrasto con la cultura e la nazione di appartenenza e si pongono come simulacro dell’estetica del diverso, dell’innocenza e della violenza. A breve condividerò con tutti voi questi nuovi lavori!
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©️ 2019—2023 Alessandro Costanzo
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