Cara catastrofe: Alessandro Costanzo, la scultura come forma, come spazio

2021 | Lorenzo Madaro


«Sventoleremo le nostre radiografie per non fraintenderci
Ci disegneremo addosso dei giubbotti antiproiettile
Costruiremo dei monumenti assurdi per i nostri amici scomparsi
E vieni a vedere l’avanzata dei deserti
Tutte le sere a bere
Per struccarti useranno delle nuvole cariche di piogge
Vedrai che scopriremo delle altre Americhe io e te
Che licenzieranno altra gente dal call center
Che ci fregano sempre
Che ci fregano sempre
Che ci fregano sempre
Che ci fregano sempre

Cara catastrofe,
Le impronte digitali e di notte le pattuglie
Che inseguono le falene
E le comete come te
Tra le lettere d’amore scritte a computer
Che poi ci metteremo a tremare come la California, amore, nelle nostre
camere separate
A inchiodare le stelle
A dichiarare guerre
A scrivere sui muri che mi pensi raramente
Che ci fregano sempre
Che ci fregano sempre
Che ci fregano sempre

Che ci fregano sempre».

Le Luci della Centrale Elettrica,
Cara catastrofe (Per ora noi la chiameremo felicità)



Accumulare il deserto è, anzitutto, uno spazio di investigazione attorno alle radici proprie della scultura e delle sue specifiche declinazioni di senso, talvolta anche imprevedibili, in grado di stabilire un rapporto immersivo tra spettatori e opere, tra il passo di chi osserva e la dimensione plastica della scultura.
   
Una scultura, quella di Alessandro Costanzo, che si concentra anzitutto verso un’indagine profonda dei confini stessi del linguaggio, nei suoi aspetti materici ma anche di peso specifico e del suo posizionamento nello spazio. Perciò l’artista verifica diverse tecniche, orientandosi poi su un display espositivo – un ambiente il cui pavimento è stato cosparso di strati di ovatta – in grado di avvolgere le sue sculture in una sospensione sensuale. Affiorano così strutture ceramiche che alludono a una dimensione ancestrale, quella delle luminarie di un sud possibile, in cui il folclore fa i conti con il quotidiano e la dimensione della festa si confronta con quella intima e domestica. All’immaginario delle luminarie – provenienti idealmente da quegli apparati effimeri che nel Seicento, anche in questa terra, mettevano in scena sogni e conflitti di un potere –, si rifanno le ceramiche selezionate dall’artista per questa sua mostra personale.
   
La mostra evidenzia le declinazioni concettuali e formali di Costanzo attraverso l’esposizione di altre opere recenti che mettono in scena, con un rigore di ascendenza minimalista, la sua concentrazione verso una scultura che perlustra i propri perimetri, i rapporti tra elementi morbidi e impenetrabili, senza mai perdere di vista un percorso che non è mai narrativo, ma sempre concentrato sulla ricostruzione dei perimetri stessi della dimensione del fare.
   
Ma ad osservarla profondamente, questa mostra in realtà è un’unica grande installazione costituita da più elementi, ma soprattutto un unico grande lavoro che vuole includere il pubblico nella dinamica stessa dell’esistenza dell’opera. Con il passaggio del pubblico, il paesaggio di ovatta cambierà, vive costanti metamorfosi, colore, ma anche consistenza, trasformando irrimediabilmente anche la percezione dei singoli elementi plastici.
   
Di ovatta sono costituiti anche i piccoli e grandi lavori realizzati con strutture-reti, telai di vario formato che accolgono al proprio interno strati sovrapposti di cotone sintetico bianco o dipinto. È una scultura che vive pienamente la sua dimensione parietale, interfacciandosi con le pareti attraverso un rapporto diretto. Non vuole avere confini perimetrati la scultura di Costanzo, ma declinare il proprio stesso peso specifico in una dimensione altra e aperta, capace di modificare percezioni spaziali e intime.
   
Si rintraccia un duplice sostanziale aspetto nella ricerca più recente di Costanzo: da un lato vi è una definita volontà di investigare la struttura intrinseca della scultura come medium, nella sua natura autonoma e autosufficiente; dall’altro – e questo accade nella fattispecie con questa mostra intesa nella sua dimensione installativa – emerge una definita e ininterrotta volontà di mutare e strutturare gli spazi in cui agisce attraverso il mezzo scultoreo e una meditata progettualità, foriera di esiti processuali.
   
La sua è, dunque, una pratica che intende confrontarsi intenzionalmente con l’ambiente in cui la scultura esiste ed agisce, attraverso dinamiche relazionali, visibili e impercettibili, che costituiscono il punto di partenza per la costruzione di un ulteriore spazio d’azione, in cui il pubblico è invitato a muoversi, rapportandosi con la forma e i volumi della scultura stessa, oltre che del luogo in cui si pratica. La scultura serve a riconoscere quei luoghi, a viverli e a studiarli. E un brandello di materia ha la potenzialità per diventare il punto di partenza di un cambiamento, di una modifica sostanziale e irrimediabile, con la regia imprescindibile del suo stesso creatore, che lo posiziona di volta in volta secondo modalità che si adeguano allo stesso spazio.
   
Il riferimento alla scultura, per Costanzo, è necessario, e il suo legame con esso va anche rintracciato nello studio di una serie di pratiche che si sono propagate, particolarmente dai Sessanta, in alcune geografie. Quando la scultura ha del tutto perduto la sua connotazione figurale per divenire pura forma autosufficiente e autoportante, strutturata in un determinato luogo, il mezzo plastico e i materiali sono divenuti dei dispositivi propedeutici a una riformulazione dello spazio reale. Le forme primarie del Minimalismo – declinate poi in sfaccettate versioni, anche in altre aree d’intervento – hanno implicato una risolutiva rivoluzione, glorificando il valore assoluto della forma e della materia all’interno di un determinato luogo. Carl Andre – in un dialogo con Barbara Rose pubblicato su “Art in America” (1965) – sintetizza questo scarto, assicurando che «Al posto di scolpire i materiali, io utilizzo i materiali come mezzi per scolpire lo spazio».
   
La nuova rivoluzione parte da qui.All’interno di questa dicotomica e persistente relazione di connessione che sussiste tra forma e spazio, si estende un dibattito destabilizzante e straordinario, anche sul piano propriamente teorico. L’artista che in Italia ha avuto un ruolo prioritario in quest’ambito – anche sotto il profilo teorico e in anni pionieristici – è stato Nicola Carrino, secondo il quale «Scultura è operazione del mutare, strumento indispensabile del continuo occupare e dimensionare lo spazio». Come evidenzia Franco Sossi nel suo Luce Spazio Strutture (1967), i presupposti di tali esperienze vanno rintracciati nel Costruttivismo degli anni Dieci del XX secolo.
   
Questi compressi riferimenti operativi provvedono ad inquadrare l’incipit del discorso sulla scultura tracciato da Costanzo negli ultimissimi tempi.
   
Per l’artista la scultura è propedeutica per un dimensionamento processuale dello spazio, lo si comprende dai brandelli di luminarie che ridisegnano l’ambiente cercando relazioni con angoli e interstizi.
   
Lo spazio prende così ulteriore conformazione attraverso la modulazione dell’opera stessa, perciò la scultura si completa nella sua totalità una volta occupato lo spazio stesso in cui agisce.
   
La forma della scultura, pertanto, è un dispositivo autopoietico che si genera in studio, strutturandosi però nella sua interezza – ed è questo lo scarto rispetto alle esperienze minimal, in cui il modulo plastico vive la sua autosufficienza e si costruisce in studio – nella totalità di uno spazio espositivo, che è qualcosa di astratto e predeterminato, ma disponibile a una trasformazione. La scultura pertanto diviene un linguaggio generativo di esperienze, preludio di un’architettura ulteriore rispetto a quella con cui si relaziona, ma è anche un linguaggio che esiste solo in rapporto a un ambiente. È l’opera stessa che contiene lo spazio, creandolo.
   
Scegliere uno specifico materiale vuol dire compiere una scelta di campo, presagire e progettare a monte l’opera, prevedendo anche la percezione che lo spettatore avrà dinnanzi ad essa nello spazio e nell’autonomo rapporto dialogico con la sua densità. «La scelta dei materiali costituisce già parte dell’idea», chiosava nel 1972 Giuseppe Uncini. Il profilo delle singole sculture della mostra di Alessandro Costanzo, è una precisa scelta legata alla volontà di costruzione delle forme insieme apparentemente leggere nello spazio d’azione dell’opera e consistenti nella loro dimensione scultorea.
   
Questi elementi, in relazione tra loro, generano quindi un nuovo ambiente, pertanto la loro funzione determina e rileva spazio, frammentandolo e delimitando le sue medesime aree e i suoi perimetri, instaurando una relazione conoscitiva che include anche alcuni aspetti apparentemente secondari.
   
Sono tutti brandelli di una realtà mutante, stralci di un itinerario di forme disfatte e ricostruite con un impegno chirurgico da bricoleur sistematico, capace di ripensare la cara catastrofe.


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