[in ambiente*/ intervista ad Alessandro Costanzo, Balloon project.
Mostra collettiva
Luca Caccioni, Alessandro Costanzo, Iginio De Luca,
Flavio Favelli, Anna Guillot, Loredana Longo, Luca Vitone,
Michel Couturier, Domenico Mennillo
Zygmunt Piotrowski-Noah Warsaw, Ampelio Zappalorto
ideazione Anna Guillot
[in ambiente*, dal 6 agosto al 31 ottobre presso lo spazio On the Contemporary di Catania, è un progetto espositivo concepito quale innesto, in un effetto matrioska, di una mostra nella mostra. L’esposizione ab origine, Rĕlĭquĭae, viene ridefinita e ricontestualizzata dall’immissione degli interventi di cinque artisti di spessore del panorama del contemporaneo che operano su linee trasversali, connotazione privilegiata dallo spazio On the Contemporary, in un tutt’uno con KoobookArchive accumunato da una medesima metodologia.
In questo scritto-intervista concepito come il primo di una piccola serie, chiediamo ad Anna Guillot, artista e docente, quali sono i punti centrali, gli intenti e il modus operandi della sua conduzione dello spazio On the Contemporary e come nasce il progetto [in ambiente*.
«In quanto luogo di verifica del contemporaneo – risponde Guillot – lo spazio On the Contemporary è sede di sperimentazione e collaudo di pratiche espositive, oltre che naturalmente di proposizione di linguaggi e tematiche. Nato due anni fa come realtà indipendente, intende costituire un riferimento per la ricerca, la connessione tra discipline e la riflessione sul contemporaneo, un punto di contatto e scambio tra artisti, teorici e operatori dell’arte. Lo spazio OtC è soprattutto laboratorio di pensiero ma nel concreto ciò che andrà a costituirne l’attività saranno mostre, workshop e residenze. Ai contesti culturali istituzionali come università e accademia e a quanto ruota loro intorno, agli spazi di ricerca come anche alle gallerie spetta incidere sul territorio, sempre nella piena apertura a contatti e collegamenti con realtà diversificate e distanti. Facilitati come siamo peraltro dalla flessibilità dei mezzi, sempre più negli ultimi decenni il principio di glocalità si è reso praticabile. Come artista e anche come attivatore culturale è in questo che ho sempre creduto.
[in ambiente* è una mostra strutturata per stratificazione, o meglio per innesto di un progetto espositivo in un altro, al fine di generare una connotazione dell’insieme “alternativa” rispetto al contesto originario già risolto sul piano concettuale e spaziale. Come indicato dall’asterisco, tale contesto era connotato da interventi di Couturier, Costanzo, Guillot, Mennillo, Piotrowski, Zappalorto, gli autori della mostra Rĕlĭquĭae in atto da gennaio. Ad essi vanno ora ad aggiungersi opere di Caccioni, De Luca, Favelli, Longo, Vitone e ancora una volta Costanzo. Naturalmente ciò che si vuole ne derivi è un contesto nuovo le cui parti intessano ulteriori dinamiche relazionali, problematiche e dialoganti nell’ambito di una certa eterogeneità di linguaggi. Come per Rĕlĭquĭae, l’attuale progetto incentrato su un sacro inteso in accezione laica è tale da configurarsi per gli autori come il segmento della propria ricerca filosofico-esistenziale ed estetica maggiormente caratterizzato da un carattere etico. Molto c’è da dire e molto è stato scritto sulla complessa relazione e sul contagio tra sfere alte e basse della cultura, tra la cultura d’élite e la popolare di stampo antropologico. Lo scandaglio autorevole che in catalogo fa dell’argomento Luciana Rogozinski, la sua relativamente concisa analisi teorico-critica, orienta bene la lettura della prima mostra e quella di questo “rinnovato” ambiente* in riferimento ad un tema attuale del contemporaneo quale è quello della reliquia.
Nuove esplicitazioni sacro-profane come il collage Evviva il papa di Favelli o l’oggetto Forever yours di Longo trovano così un qualche dialogo linguistico con le opere preesistenti di Guillot e Zappalorto, mentre la fotografia Hypnosis di un insolito Caccioni e l’installazione Indagine sulla curvatura di Costanzo sembrano solo a prima vista veicolare una certa dimensione popolare del sacro in contrasto con la visione “alta” che dell’argomento pone Piotrowski, o con la dimensione etica che Sono l’automa e l’ordigno, l’opera oggettuale di De Luca, potrebbe restituire attraverso un’imprevista sintonia con la memoria mitica dei luoghi espressa dalle carte di Couturier, o, lateralmente, dall’operazioni senza titolo di Vitone e da quella di Mennillo».
Conversiamo adesso con il giovane artista catanese Alessandro Costanzo (1991), la cui ricerca in questo “nuovo ambiente” verte sull’oggetto-simbolo di un rituale. Vantando diverse collaborazioni ed esposizioni tra la Sicilia e il Belgio (Fondazione San Fedele, Milano; En courant me reposer, Bruxelles, open studio, Arte contemporanea Musumeci Contemporary, Bruxelles; Pietro Fortuna), Costanzo osserva e indaga il complesso binomio tra rappresentazione e disintegrazione, dove l’uno e l’altro convivono nella dimensione del frammento. Viene così determinata dall’artista una volontà di annientamento dell’immagine a favore del segno indecifrabile e della scoria, quale testimonianza di un pensiero formulato e successivamente fagocitato da un gesto distruttivo, che ricalca l’incessante azione del tempo sulla materia.
Indagine sulla curvatura è un’opera site-specific realizzata in continuità con il contesto architettonico per cui è creata. Frammento di una memoria sacra, porzione di un oggetto, la luminaria, che racchiude in sé il segno di una parata liturgica, di una processione. Puoi parlarci dell’ideazione del tuo lavoro?
Il lavoro nasce osservando le arcate dello spazio On the Contemporary; ho immaginato di poggiarmi ai soffitti per sfruttarne il punto di vista insolito, così in un gesto atto ad imitare i confini del luogo ho spinto il calco quanto più possibile vicino alla volta. La luminaria, in quanto testimone muto dell’evento liturgico, lo osserva e simultaneamente lo omaggia. Questo “osservare” silenziosamente da prospettive atipiche è un po’ l’atteggiamento che ho adottato in quest’intervento site-specific. All’interno del calco, inoltre, ho inglobato alcuni scritti e confessioni frammentate che fanno parte di una serie di riflessioni sul mare, trascritte in parte anche sulle superfici delle lampadine sparse per terra. Ho preferito costruire un clone, piuttosto che utilizzare l’oggetto reale in un gesto duchampiano; nella sua falsità, l’oggetto è identificabile in quanto aderente al suo omonimo reale, ma nel processo di duplicazione diventa l’omaggio “statuario” a se stesso, in lode al suo “licenziamento” materiale. L’originaria fastosità della luminaria si trasforma così nel suo opposto, conservo il suo esoscheletro, per appropriarmi della sua nudità.
Nella tua analisi si pone al centro la destrutturazione del pensiero vigente. Un pensiero dedotto dal generale al particolare che sconquassa la realtà usualmente intesa. Mettere in discussione il tutto, scardinandolo, per giungere ad una verità? Anche in Je suis, l’altra opera esposta, avviene una frammentazione.
Scardinare il “tutto” è una costante inevitabile nella mia ricerca. Il tentativo è quello di immaginare gli oggetti, le cose, nel momento in cui sono prossime alla “sparizione” ma non ancora “desertificate”, quando è ancora rintracciabile il legame fra la scoria e la sua origine.
È difficile stabilire se si giunge ad una verità, sicuramente nel mio lavoro è presente una componente legata all’accelerazione del tempo, questo mi porta ad immaginare una verità deformata, disintegrata.
Je suis è uno slogan laico, una dichiarazione al mare, un messaggio nella bottiglia rivolto alla natura, che nella sua fastosa e triste ironia, dichiara la sua autocoscienza. Viaggia su una superficie non definita, che si modella incessantemente sotto l’azione dei venti, delle maree e della pressione atmosferica, distaccata dalla crosta terrestre, e apparentemente più vicina al cielo, come una distesa illusoria in cui si è quasi sospesi. Il poter imbarcare questa asserzione, che nella sua luminosa manifestazione dialoga a lungo con le acque e si frantuma continuamente sulla superficie, genera un moto, una vibrazione, un mantra che comunica incessantemente col “tutto”. Liberare questo gesto è come proiettarsi sopra quella imbarcazione per osservare il mondo da un punto di vista distaccato, dove l’azione autonoma dell’opera sposa definitivamente la natura.
Di recente sei stato coinvolto all’iniziativa “Rendez-vous au Jardin”, promossa dall’Assessore alla Cultura e degli Spazi Verdi di Uccle (Belgio), in cui hai presentato l’installazione site-specific Same Green, Same Sky nello splendido giardino della Maison Grégoire con la curatela di Emmanuel Lambion. Potresti raccontarci come si sviluppa il tuo progetto e come ti sei relazionato allo spazio ideato dall’architetto belga Henry Van De Velde?
Nel progetto approfondisco il rapporto autoctono che si crea fra un’entità vivente e il proprio luogo d’origine. Due persone e due piante interagiscono simultaneamente, generando in un dialogo surreale un cortocircuito visivo e sonoro, che si palesa come indagine poetica sul legame profondo che il nativo instaura con la propria terra. Traendo spunto da quella “finestra” che è il giardino, ho innestato su due alberi, uno in Sicilia e l’altro a Bruxelles, due webcam, che per 4 giorni 24 ore su 24 hanno trasmesso in rete il loro incessante e intimo punto di vista. Ho voluto così restituire un parallelismo tra colui che non si è mai mosso dal proprio luogo di origine, sia in termini mentali che psicologici, vivendo all’ombra del nido e la pianta che, per sua stessa natura, nasce e permane nel suo ambiente natio, nella sua realtà immutabile e confinata.
Devo ammettere invece che inizialmente il dialogo con la Maison Grégoire non è stato facile, data la forte “presenza autoriale” che essa manifesta nella sua storicità architettonica e nella coesistente collezione d’arredamento d’autore. Ho deciso quindi di non essere invadente immettendo ulteriori azioni visive, ma soltanto intervenendo con un’istallazione sonora, che nella sua diffusione “aerea” ha conquistato la quasi totalità dello spazio. Così come nel giardino, anche negli spazi interni, quindi, due autoctoni (belga e siciliano) hanno interagito senza tregua, scambiandosi confessioni intime e visioni di un mondo a loro estraneo.
Quali saranno le tue proiezioni future? Vivi tra la Sicilia e il Belgio. Come pensi di muoverti nel prossimo immediato?
Sicuramente vorrei continuare a spostarmi e lavorare in Italia, e in Belgio dove in questi anni ho avuto modo di approfondire e conoscere meglio la scena artistica internazionale e maturare esperienze fondamentali che hanno contribuito ad una crescita progressiva del mio lavoro – anche grazie alla lunga residenza trascorsa nel 2019 presso gli spazi di Musumeci contemporary a Bruxelles.
Nel prossimo immediato è difficile fare previsioni, vista la paradossale situazione in cui ci ha catapultati la pandemia, indubbiamente penso di muovermi verso mete diverse, anche attraverso la candidatura a “call” in Europa; al momento continuo a lavorare in Sicilia concedendomi il tempo per esplorarne i confini e stratificare idee.
exhibition ︎︎︎
2020 | Alessandra Tomasello
Mostra collettiva
Luca Caccioni, Alessandro Costanzo, Iginio De Luca,
Flavio Favelli, Anna Guillot, Loredana Longo, Luca Vitone,
Michel Couturier, Domenico Mennillo
Zygmunt Piotrowski-Noah Warsaw, Ampelio Zappalorto
ideazione Anna Guillot
coordinamento Emanuela Nicoletti
[in ambiente*, dal 6 agosto al 31 ottobre presso lo spazio On the Contemporary di Catania, è un progetto espositivo concepito quale innesto, in un effetto matrioska, di una mostra nella mostra. L’esposizione ab origine, Rĕlĭquĭae, viene ridefinita e ricontestualizzata dall’immissione degli interventi di cinque artisti di spessore del panorama del contemporaneo che operano su linee trasversali, connotazione privilegiata dallo spazio On the Contemporary, in un tutt’uno con KoobookArchive accumunato da una medesima metodologia.
In questo scritto-intervista concepito come il primo di una piccola serie, chiediamo ad Anna Guillot, artista e docente, quali sono i punti centrali, gli intenti e il modus operandi della sua conduzione dello spazio On the Contemporary e come nasce il progetto [in ambiente*.
«In quanto luogo di verifica del contemporaneo – risponde Guillot – lo spazio On the Contemporary è sede di sperimentazione e collaudo di pratiche espositive, oltre che naturalmente di proposizione di linguaggi e tematiche. Nato due anni fa come realtà indipendente, intende costituire un riferimento per la ricerca, la connessione tra discipline e la riflessione sul contemporaneo, un punto di contatto e scambio tra artisti, teorici e operatori dell’arte. Lo spazio OtC è soprattutto laboratorio di pensiero ma nel concreto ciò che andrà a costituirne l’attività saranno mostre, workshop e residenze. Ai contesti culturali istituzionali come università e accademia e a quanto ruota loro intorno, agli spazi di ricerca come anche alle gallerie spetta incidere sul territorio, sempre nella piena apertura a contatti e collegamenti con realtà diversificate e distanti. Facilitati come siamo peraltro dalla flessibilità dei mezzi, sempre più negli ultimi decenni il principio di glocalità si è reso praticabile. Come artista e anche come attivatore culturale è in questo che ho sempre creduto.
[in ambiente* è una mostra strutturata per stratificazione, o meglio per innesto di un progetto espositivo in un altro, al fine di generare una connotazione dell’insieme “alternativa” rispetto al contesto originario già risolto sul piano concettuale e spaziale. Come indicato dall’asterisco, tale contesto era connotato da interventi di Couturier, Costanzo, Guillot, Mennillo, Piotrowski, Zappalorto, gli autori della mostra Rĕlĭquĭae in atto da gennaio. Ad essi vanno ora ad aggiungersi opere di Caccioni, De Luca, Favelli, Longo, Vitone e ancora una volta Costanzo. Naturalmente ciò che si vuole ne derivi è un contesto nuovo le cui parti intessano ulteriori dinamiche relazionali, problematiche e dialoganti nell’ambito di una certa eterogeneità di linguaggi. Come per Rĕlĭquĭae, l’attuale progetto incentrato su un sacro inteso in accezione laica è tale da configurarsi per gli autori come il segmento della propria ricerca filosofico-esistenziale ed estetica maggiormente caratterizzato da un carattere etico. Molto c’è da dire e molto è stato scritto sulla complessa relazione e sul contagio tra sfere alte e basse della cultura, tra la cultura d’élite e la popolare di stampo antropologico. Lo scandaglio autorevole che in catalogo fa dell’argomento Luciana Rogozinski, la sua relativamente concisa analisi teorico-critica, orienta bene la lettura della prima mostra e quella di questo “rinnovato” ambiente* in riferimento ad un tema attuale del contemporaneo quale è quello della reliquia.
Nuove esplicitazioni sacro-profane come il collage Evviva il papa di Favelli o l’oggetto Forever yours di Longo trovano così un qualche dialogo linguistico con le opere preesistenti di Guillot e Zappalorto, mentre la fotografia Hypnosis di un insolito Caccioni e l’installazione Indagine sulla curvatura di Costanzo sembrano solo a prima vista veicolare una certa dimensione popolare del sacro in contrasto con la visione “alta” che dell’argomento pone Piotrowski, o con la dimensione etica che Sono l’automa e l’ordigno, l’opera oggettuale di De Luca, potrebbe restituire attraverso un’imprevista sintonia con la memoria mitica dei luoghi espressa dalle carte di Couturier, o, lateralmente, dall’operazioni senza titolo di Vitone e da quella di Mennillo».
Conversiamo adesso con il giovane artista catanese Alessandro Costanzo (1991), la cui ricerca in questo “nuovo ambiente” verte sull’oggetto-simbolo di un rituale. Vantando diverse collaborazioni ed esposizioni tra la Sicilia e il Belgio (Fondazione San Fedele, Milano; En courant me reposer, Bruxelles, open studio, Arte contemporanea Musumeci Contemporary, Bruxelles; Pietro Fortuna), Costanzo osserva e indaga il complesso binomio tra rappresentazione e disintegrazione, dove l’uno e l’altro convivono nella dimensione del frammento. Viene così determinata dall’artista una volontà di annientamento dell’immagine a favore del segno indecifrabile e della scoria, quale testimonianza di un pensiero formulato e successivamente fagocitato da un gesto distruttivo, che ricalca l’incessante azione del tempo sulla materia.
Indagine sulla curvatura è un’opera site-specific realizzata in continuità con il contesto architettonico per cui è creata. Frammento di una memoria sacra, porzione di un oggetto, la luminaria, che racchiude in sé il segno di una parata liturgica, di una processione. Puoi parlarci dell’ideazione del tuo lavoro?
Il lavoro nasce osservando le arcate dello spazio On the Contemporary; ho immaginato di poggiarmi ai soffitti per sfruttarne il punto di vista insolito, così in un gesto atto ad imitare i confini del luogo ho spinto il calco quanto più possibile vicino alla volta. La luminaria, in quanto testimone muto dell’evento liturgico, lo osserva e simultaneamente lo omaggia. Questo “osservare” silenziosamente da prospettive atipiche è un po’ l’atteggiamento che ho adottato in quest’intervento site-specific. All’interno del calco, inoltre, ho inglobato alcuni scritti e confessioni frammentate che fanno parte di una serie di riflessioni sul mare, trascritte in parte anche sulle superfici delle lampadine sparse per terra. Ho preferito costruire un clone, piuttosto che utilizzare l’oggetto reale in un gesto duchampiano; nella sua falsità, l’oggetto è identificabile in quanto aderente al suo omonimo reale, ma nel processo di duplicazione diventa l’omaggio “statuario” a se stesso, in lode al suo “licenziamento” materiale. L’originaria fastosità della luminaria si trasforma così nel suo opposto, conservo il suo esoscheletro, per appropriarmi della sua nudità.
Nella tua analisi si pone al centro la destrutturazione del pensiero vigente. Un pensiero dedotto dal generale al particolare che sconquassa la realtà usualmente intesa. Mettere in discussione il tutto, scardinandolo, per giungere ad una verità? Anche in Je suis, l’altra opera esposta, avviene una frammentazione.
Scardinare il “tutto” è una costante inevitabile nella mia ricerca. Il tentativo è quello di immaginare gli oggetti, le cose, nel momento in cui sono prossime alla “sparizione” ma non ancora “desertificate”, quando è ancora rintracciabile il legame fra la scoria e la sua origine.
È difficile stabilire se si giunge ad una verità, sicuramente nel mio lavoro è presente una componente legata all’accelerazione del tempo, questo mi porta ad immaginare una verità deformata, disintegrata.
Je suis è uno slogan laico, una dichiarazione al mare, un messaggio nella bottiglia rivolto alla natura, che nella sua fastosa e triste ironia, dichiara la sua autocoscienza. Viaggia su una superficie non definita, che si modella incessantemente sotto l’azione dei venti, delle maree e della pressione atmosferica, distaccata dalla crosta terrestre, e apparentemente più vicina al cielo, come una distesa illusoria in cui si è quasi sospesi. Il poter imbarcare questa asserzione, che nella sua luminosa manifestazione dialoga a lungo con le acque e si frantuma continuamente sulla superficie, genera un moto, una vibrazione, un mantra che comunica incessantemente col “tutto”. Liberare questo gesto è come proiettarsi sopra quella imbarcazione per osservare il mondo da un punto di vista distaccato, dove l’azione autonoma dell’opera sposa definitivamente la natura.
Di recente sei stato coinvolto all’iniziativa “Rendez-vous au Jardin”, promossa dall’Assessore alla Cultura e degli Spazi Verdi di Uccle (Belgio), in cui hai presentato l’installazione site-specific Same Green, Same Sky nello splendido giardino della Maison Grégoire con la curatela di Emmanuel Lambion. Potresti raccontarci come si sviluppa il tuo progetto e come ti sei relazionato allo spazio ideato dall’architetto belga Henry Van De Velde?
Nel progetto approfondisco il rapporto autoctono che si crea fra un’entità vivente e il proprio luogo d’origine. Due persone e due piante interagiscono simultaneamente, generando in un dialogo surreale un cortocircuito visivo e sonoro, che si palesa come indagine poetica sul legame profondo che il nativo instaura con la propria terra. Traendo spunto da quella “finestra” che è il giardino, ho innestato su due alberi, uno in Sicilia e l’altro a Bruxelles, due webcam, che per 4 giorni 24 ore su 24 hanno trasmesso in rete il loro incessante e intimo punto di vista. Ho voluto così restituire un parallelismo tra colui che non si è mai mosso dal proprio luogo di origine, sia in termini mentali che psicologici, vivendo all’ombra del nido e la pianta che, per sua stessa natura, nasce e permane nel suo ambiente natio, nella sua realtà immutabile e confinata.
Devo ammettere invece che inizialmente il dialogo con la Maison Grégoire non è stato facile, data la forte “presenza autoriale” che essa manifesta nella sua storicità architettonica e nella coesistente collezione d’arredamento d’autore. Ho deciso quindi di non essere invadente immettendo ulteriori azioni visive, ma soltanto intervenendo con un’istallazione sonora, che nella sua diffusione “aerea” ha conquistato la quasi totalità dello spazio. Così come nel giardino, anche negli spazi interni, quindi, due autoctoni (belga e siciliano) hanno interagito senza tregua, scambiandosi confessioni intime e visioni di un mondo a loro estraneo.
Quali saranno le tue proiezioni future? Vivi tra la Sicilia e il Belgio. Come pensi di muoverti nel prossimo immediato?
Sicuramente vorrei continuare a spostarmi e lavorare in Italia, e in Belgio dove in questi anni ho avuto modo di approfondire e conoscere meglio la scena artistica internazionale e maturare esperienze fondamentali che hanno contribuito ad una crescita progressiva del mio lavoro – anche grazie alla lunga residenza trascorsa nel 2019 presso gli spazi di Musumeci contemporary a Bruxelles.
Nel prossimo immediato è difficile fare previsioni, vista la paradossale situazione in cui ci ha catapultati la pandemia, indubbiamente penso di muovermi verso mete diverse, anche attraverso la candidatura a “call” in Europa; al momento continuo a lavorare in Sicilia concedendomi il tempo per esplorarne i confini e stratificare idee.
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