Alessandro Costanzo - Hey Siri
Un passo indietro. Prima di soffermarci sui Sospesi e sugli altri lavori che compongono il paesaggio in cui far risuonare il divertito, o tragico, «Hey Siri» che dà il titolo, e in parte il senso, a questa mostra, non possiamo non attraversare i Deserti che li hanno di poco preceduti, decidendo, magari, di sostarvi per qualche riga, giusto il tempo di acclimatarsi per entrare in modo più diretto, e forse intimo, nel vivo delle riflessioni recenti di Alessandro Costanzo.
I Deserti rappresentano un ciclo di opere costituite da griglie/gabbie in metallo di dimensioni e colori variabili che accolgono, e probabilmente proteggono, morbide coltri di ovatta intrise di colore che si fanno spazio stipandosi al loro interno. Griglie e ovatta costituiscono il positivo e il negativo di medesime porzioni di spazio e si nutrono dello stesso pigmento, seppure le griglie per via tecnologico-industriale e l’ovatta per via manuale-artigianale, creando una serie di nuances.
L’artista ci dice che questo lavoro ha a che fare con l’ozio e che racconta di sé, è traccia del tempo trascorso in modo volutamente improduttivo all’interno del proprio studio, il luogo tradizionalmente vocato alla produzione.
La polarità che struttura queste opere – il rigido/morbido dei materiali, l’industriale/artigianale della resa cromatica, l’assetto form/antiform delle componenti – parla il linguaggio della crisi. Ma crisi di chi? Crisi di cosa? Nella radice della parola crisi, dal verbo greco krino, c’è l’idea del dover scegliere, e c’è il rimando a una scissione quando non addirittura a un pericolo.
Ecco, prima ancora che nel cuore del deserto, siamo nel cuore di una prassi che mi sembra familiare per Costanzo: la messa in scena di una situazione di crisi. Due opposti, probabilmente in cerca di conciliazione, costruiscono una drammaturgia della scelta, senza poter celare, inevitabilmente, l’urgenza di un disagio. Penso ad esempio al riuscitissimo The desease of more, che tematizza in qualche modo la perdita del metron, del senso della misura, raccontando metaforicamente dell’odierna incapacità di trovare soddisfazione nei risultati raggiunti e dell’insana, continua, ricerca del more, del “di più”. Nella dinamica istituita tra le due aste di ottone che marcano un angolo della galleria, eleganti nella fragilità della loro postura, instabili nel loro tentativo di superarsi in altezza, preziose ma precarie nel loro contendersi un primato, l’artista scolpisce un ritratto dei nostri giorni e delle nostre relazioni. Lo spunto lo desume dall’ambito sportivo, la definizione della “malattia del di più” [the desease of more] appartiene al rinomato allenatore di football Pat Raley, che racconta come il fallimento delle squadre più forti non derivi dalle sconfitte in campo ma dalla degenerazione delle dinamiche interne. Ma è evidente che per l’artista si tratta di un escamotage per parlare di un tratto distintivo della nostra società, che qualcuno ha ben definito la «società dell’insoddisfazione».1 Il tono di Costanzo, però, non è quello del castigatore di costumi, non c’è nella sua opera un piglio savonaroliano, la questione è posta in modo sottile, liminare, ma non per questo meno pungente, perché su quel tapis roulant edonico di cui egli parla appoggiandosi alla nomenclatura psicologica ci siamo sopra tutti, ogni giorno... Quelle aste arpionate, oltre tutto, sono belle; esteticamente parlando, la loro fragilità è tutt’altro che un disvalore e la loro presenza sull’angolo potenzia l’aggetto del pilastro, ne sottolinea l’ingombro, la possanza, conquista una centralità espositiva. Viene messo in campo, dunque, un processo di ambiguazione che non lascia spazio a risposte ordinarie. C’è un’indeterminatezza che costringe all’introspezione.
Su quello stesso angolo e su quella stessa arcata, un paio di anni prima l’artista aveva posizionato un altro dei suoi lavori a mio avviso più significativi, Indagine sulla curvatura. Questo a dimostrazione che un’ulteriore caratteristica della sua operatività è la costruzione di senso in una stretta triangolazione tra l’opera, lo spazio architettonico e un terreno di significazione lasciato sempre volutamente poco definito, reticente alla esplicitazione degli intenti, auspicando che quella sottrazione possa funzionare come stimolo al pensiero, che quella riduzione possa divenire punto di incontro con l’altro, inizio di una condivisione, di una ricerca comune.
Sul piedritto della volta, Costanzo colloca il calco di un arco di luminaria, nascondendovi all’interno dei pensieri sul mare accumulati lungo gli anni, che riporta anche, a pennarello, sulla calotta di vetro di piccole lampadine abbandonate a terra. Di nuovo un meccanismo binario di opposizioni nella scelta degli elementi e dei processi che compongono l’installazione (ad esempio il calco per la luminaria – sottratta al presente, collocata in una sospensione temporale – e il readymade per le lampadine, presenti e fragranti), ma soprattutto di nuovo una relazione sostanziale con la morfologia del luogo e una indisgiungibile triangolazione di nessi, in cui il vero protagonista – che mi pare ravvisabile nello svuotamento di pathos inflitto al folklore e nel conseguente slittamento di quel pathos su un piano memoriale – viene anche in questo caso ambiguato mediante uno sbilanciamento operato dal titolo, che estroflette il focus tematico sulla curvatura della volta anziché sui possibili contenuti generati dalla luminaria. In realtà quest’installazione mette in campo il peso di una perdita, rimandando agli scenari odierni della festa popolare, alla crisi del rapporto col sacro e al vuoto disarmante che ne deriva. Disarmante, d’altronde, quanto l’innamorarsi di un computer (I'm yours and I'm not yours, 2023).
Ora possiamo tornare ai deserti, avendo constatato la necessità non solo di interrogarsi sul presente ma di voler condividere con gli altri questo percorso controcorrente di quotidiano riposizionamento nel mondo.
Tra gli appunti di Anna Harendt per una lezione che tenne nel 1955 presso la University of California di Berkeley si legge: «Solo da coloro che riescono a sopportare la passione per la vita nelle condizioni del deserto, ci si può aspettare che raccolgano dentro di sé quel coraggio che è alla radice dell’agire, di tutto ciò che fa sì che l’uomo diventi un essere agente».2 La metafora del deserto, insieme a quella opposta di oasi, torna di frequente nei saggi della filosofa tedesca (naturalizzata americana) per dare una lettura della condizione inospitale della contemporaneità. È il deserto dei totalitarismi, il deserto dei campi di sterminio, il deserto lasciato dalla bomba atomica, ma è anche il deserto della metropoli che ha eroso le relazioni fra gli umani e ha reso possibile che si facesse strada un’inautenticità dell’esistere. L’oasi, al contrario, è evidentemente metafora dell’energia che permette di resistere nel deserto, è fonte di vita, purché si sventi il pericolo di isolarvisi nell’impossibilità di sopportare la durezza dell’esterno. Ma si può intendere il deserto anche come luogo dell’azzeramento e dunque come incubatore della possibilità del nuovo, come terreno da cui ricominciare.
La sovversione della relazione lavoro/ozio sulla quale Costanzo incardina i suoi deserti, oltre a porre la questione della “cronofagia”3 che affligge il mondo globalizzato, apre una finestra su una serie di questioni interrelate che tornano a riguardare il modo di intendere il concetto di lavoro, il concetto di ozio intellettuale, quello di tempo libero, tutti ambiti ampiamente studiati fin dall’Ottocento e oggi di nuovo all’ordine del giorno nell’era del capitalismo totalitario. Le griglie/ gabbie dei suoi deserti, seduttive nella loro cromia rassicurante e nell’accordo con il colore della materia morbida che ospitano, non coincidono con la gabbia d’acciaio di Weber ma per qualche verso la presuppongono, seppure per ridiscuterla.
I deserti di Costanzo potrebbero essere il territorio in cui si rischia nietzschianamente di rifugiarsi, fuggendo da tutto e da tutti, protetti dalla propria, seppur aspra ma autentica, solitudine; oppure potrebbero, più probabilmente, essere il suolo da cui ripartire, quello spazio dell’azzeramento dal quale provare a rivendicare forme di esistenza più vivibili e attivare percorsi di revisione dei valori sociali, tra i quali, ad esempio, quello stesso del lavoro. Il recente Lavorare meno, lavorare meglio, non lavorare affatto, di Serge Latouche, testimonia, tra gli altri, di come da più parti si stia ripensando il concetto di lavoro nella società globalizzata.
Dunque nei lavori di Costanzo deserto e oasi potrebbero coincidere, il che giustificherebbe la qualità estetica che li caratterizza, privi come sono di ferite manifeste, di strappi evidenti, di disarmonie. Senza contare che nella mostra Accumulare il deserto (On the Contemporary, Catania, 2022) sono stati posti in dialogo con piccole sculture ceramiche che come splendidi grumi di terragna umanità sono chiamate a fare i conti con la potenza seduttiva e simbolica di un soffice bianco di cotone artificiale che fa pensare a un vuoto ricercato e costruito come un dono.
Nella contrapposizione tra lavoro e ozio, tra agire e non agire, tra produrre e contemplare, l’opera d’arte quale posizione può, o vuole, occupare? Di fatto subisce la stessa compressione spazio-temporale di tutto il resto e quindi ragionare sulla ri-temporalizzazione dell’agire in questa nostra società dell’accelerazione significa necessariamente problematizzare anche la vita e le ragioni dell’opera d’arte (oltre che la sua condizione di asservimento al rigido sistema di mercato globalizzato).
D’altronde Costanzo torna ripetutamente sulla questione del tempo, che affronta da diverse angolazioni. La implica ma la lascia sullo sfondo in Indagine sulla curvatura, la tematizza come forza in campo nei Deserti, la pone in primissimo piano in Allegoria del giorno, dove attraverso un complesso meccanismo di correlazioni ne fa la ragione stessa del peso delle sculture.
Ci affidiamo allora a questo comune denominatore della riflessione sul tempo per inoltrarci, finalmente, nell’atmosfera rarefatta di Hey Siri, perché sembrerebbe di poter dire che è proprio a partire dalla nuova condizione antropologica in cui ci troviamo a vivere – determinata da quella compressione spazio-temporale di cui parlava David Harvey già nel 1989 – che prende le mosse il ragionamento svolto in mostra.
Il titolo, a differenza di altre volte, è volutamente esplicito. Forse a compensare il fatto che il contenuto del lavoro potrebbe risultare, a un primo acchito, meno afferrabile che nelle mostre precedenti.
Ritroviamo le geometrie rigide dei deserti, anche se mentre in quel caso si poteva rimanere nell’incertezza di pensarli come sculture a parete o come quadri-oggetto, in questo caso è evidente che l’artista ha deciso di approdare al regime dell’immagine pittorica. La griglia metallica colorata diventa ora una lamiera piatta, compatta, che può accogliere un pittoricissimo giallo o un profondo materico nero, a tutti gli effetti dei monocromi. Ma quello nella pittura non è un salto nel buio; Costanzo si è espresso per anni mediante quadri e disegni. Il bisogno di tornare a lavorare su un’idea di pittura credo abbia a che fare con la necessità di calarsi fino in fondo nel tessuto problematico messo in atto dalla mostra, di mettersi in gioco con qualcosa di veramente personale.
È evidente, infatti, che queste opere raggelano la temperatura del registro espressivo, e per non scadere in una impersonalità che non gli appartiene, l’artista non può che ancorare i lavori a sé stesso, alla propria realtà. Ecco quindi il ricorso alla pittura, che conosce bene e che ha praticato per tanto tempo, ecco la presenza dei suoi oggetti, un sigaro, un accendino, degli scontrini, un foulard, che trovano appoggio su quei rettangoli zincati come a rimarcare la familiarità di un gesto routinario, distratto.
Dov’è allora il segreto, l’anima, di questo gruppo di sottili, regolari volumi in lamiera ravvivati soltanto da qualche oggetto e qualche sottile feritoia?
L’anima è nel livello di intimità al quale Costanzo riesce a spingere la riflessione sul rapporto che siamo arrivati ad intrattenere con i dispositivi tecnologici e con l’intelligenza artificiale, con Siri, Alexa, quegli strumenti esosomatici, direbbe Carlo Sini, o quelle protesi, avrebbe detto Marshall McLuhan, che hanno modificato antropologicamente le nostre relazioni fisiche e psichiche con il mondo.
L’anima di questa mostra sta nel coraggio di guardare in faccia una dipendenza personale e collettiva e nel riconoscere alle macchine un ruolo così centrale da soffermarsi a pensare al loro respiro: le fessure praticate sulle superfici dei Sospesi riproducono infatti gli schemi dei sistemi di aerazione/dissipazione dei dispositivi tecnologici – dagli impianti di condizionamento ai frigoriferi ai forni ai computer – e non è un caso che all’interno di questi Sospesi sia stato lasciato uno spazio vuoto, nero, silenzioso, un’incognita da offrire all’immaginazione. Se infatti da una parte Costanzo sembra chiedersi cosa ne sia, ormai, del nostro “tempo marginale” – la definizione la prende dal Dorfles de L’intervallo perduto –, cosa ne sia di quei tempi residuali che dovrebbero costituire la nostra pausa dagli impegni, dall’altra non nasconde l’interesse per ciò che accade all’interno di quella dimensione interstiziale situata tra i microchip e l’esoscheletro di uno smartphone, tra il corpo refrigerante e la calotta di un frigo. D’altronde il Sospeso #1, dalle cui griglie esce una bellissima extension castana, incarna perfettamente la situazione di estremizzazione di un processo alienatorio: psicologi e sociologi riferiscono che ci sono bambini che la mattina, uscendo di casa per andare a scuola, salutano Alexa. Per molto tempo tutto questo è stato appannaggio di film di fantascienza più o meno rassicuranti, più o meno inquietanti; oggi quella soglia tra realtà e finzione si va assottigliando in una quotidianità che appare pronta a fare un salto capitale, senza che si sia sufficientemente riflettuto sull’altra faccia di tale definitiva rinuncia all’umano.
La mente va al passato, a quella generazione di artisti che si è trovata a confrontarsi con le trasformazioni incalzanti introdotte da una tecnologia che entrava nelle case e stravolgeva la qualità e i ritmi delle esistenze. Come non pensare ai seminari su arte e tecnologica organizzati da Reyner Benham all'ICA di Londra negli anni '50, come non rammentare il fascino esercitato sugli artisti dal tubo catodico, pensiamo a Fontana, agli Spazialisti, alla loro capacità di confrontarsi con il mistero che quell’oggetto rivoluzionario portava con sé. Come non ricordare Leonardo Sinisgalli, la sua «Civiltà delle Macchine» e il suo tentativo di costruire un ponte, da poeta, fra gli ingranaggi delle macchine industriali e la morfologia delle opere degli amici astrattisti. Collegando, per altro, tutto questo con le cosmologie celesti e guardando il mondo con uno «sguardo dal di fuori» avrebbe detto anni dopo Alberto Boatto. Ma la condizione era diversa, il capitalismo di quegli anni non aveva ancora pienamente espresso la mostruosità dei suoi risvolti, quindi, malgrado gli avvertimenti dei più sensibili – che di fatto riuscirono a preconizzare la nostra condizione presente – ai più sembrava che quel mostro si potesse contenere, indirizzare, che gli scenari più nefasti si potessero in qualche modo esorcizzare. Mi sembra che Costanzo esprima oggi un analogo sentimento di sgomento e di fascinazione, di curiosità e di preoccupazione, di leggerezza e gravità. Lo dice in modo sintetico l’istallazione a terra che fa da perno alla mostra. Racconta di un fondersi. C’è una struttura convessa in lamiera, ci sono due piumini al suo interno e insieme due lunghe aste che rimandano al campeggiare in una tenda. L’idea è quella di una notte condivisa all’aperto, e quella calotta/tenda ha le stesse feritoie dei dispositivi tecnologici. È un’immagine evocativa, poetica e allo stesso tempo allarmante. Ci troviamo dentro la vastità del cielo, dentro l’indicibilità dell’emozione umana dell’unirsi, ma anche di fronte alla familiarità con una dipendenza. Ma quando comincia questa dipendenza e soprattutto come leggerne la deriva? Qualche autorevole filosofo, d’altro canto, ribadisce come l’umano stesso sia figlio del proprio lavoro, ossia figlio della tecnica, e non viceversa; ci ricorda che l’umano è un automa e che il linguaggio è una macchina, è tecnica. La questione si complica...
Le opere in mostra raccontano anche di esoscheletri, di gusci, di strutture protettive; l’artista ne ha già parlato altre volte, soprattutto quando ha affrontato le relazioni tra gli umani. Struggente quella mutuata dal film Her che ha dato vita all’installazione I'm yours and I'm not yours (2023), così come è struggente quella suggerita, in mostra, dalle cartine argentate dei chewingum che riportano messaggi scritti a mano, apparentemente freschi, leggeri, nell’immediatezza del loro impatto, ma in realtà completamente inautentici, perché tratti dalle comunicazioni standardizzate suggerite nelle App di incontri. Il titolo del lavoro, Friendzone, sta lì a rimarcare una relazionalità giovanile diffusa, così come a una condizione giovanile rimanda l’interazione con Chat GPT di cui rimane traccia sul retro dei fogli di sala, dove in 102 versioni uniche sono state riprodotte le risposte fornite dall’A.I. alle richieste postegli dall’artista di scrivere una preghiera, una barzelletta e una favola.
Non si tratta, allora, di riflettere soltanto sulla nostra dipendenza digitale, si tratta di occuparci della desertificazione relazionale che incalza e di quel vuoto incolmabile che può condurre a innamorarsi di Samantha (cfr. Her).
Ma di nuovo Costanzo non giudica. Sa bene non solo di non essere in grado di dare risposte ma soprattutto che non è mai stato il compito degli artisti. Semplicemente, si pone al fianco dello spettatore, guarda dentro quelle fessure, immagina il respiro delle macchine, gioca a interagire con Chat GPT e si ritrova a interrogare la propria routine e la qualità del proprio tempo marginale, chiedendosi come poter schivare il pericolo di rimanere intrappolato nel deserto mentre rischia di arrivare una ingovernabile tempesta di sabbia (Harendt).
1 Di “società dell'insoddisfazione” hanno parlato Agnes Heller e Ferenc Fehér in La condizione politica postmoderna, Marietti, Roma 1992 (prima edizione
Agnes Heller e Ferenc Fehér, The Postmodern Political Condition, Columbia University Press, 1988).
2024 | Daniela Bigi
Un passo indietro. Prima di soffermarci sui Sospesi e sugli altri lavori che compongono il paesaggio in cui far risuonare il divertito, o tragico, «Hey Siri» che dà il titolo, e in parte il senso, a questa mostra, non possiamo non attraversare i Deserti che li hanno di poco preceduti, decidendo, magari, di sostarvi per qualche riga, giusto il tempo di acclimatarsi per entrare in modo più diretto, e forse intimo, nel vivo delle riflessioni recenti di Alessandro Costanzo.
I Deserti rappresentano un ciclo di opere costituite da griglie/gabbie in metallo di dimensioni e colori variabili che accolgono, e probabilmente proteggono, morbide coltri di ovatta intrise di colore che si fanno spazio stipandosi al loro interno. Griglie e ovatta costituiscono il positivo e il negativo di medesime porzioni di spazio e si nutrono dello stesso pigmento, seppure le griglie per via tecnologico-industriale e l’ovatta per via manuale-artigianale, creando una serie di nuances.
L’artista ci dice che questo lavoro ha a che fare con l’ozio e che racconta di sé, è traccia del tempo trascorso in modo volutamente improduttivo all’interno del proprio studio, il luogo tradizionalmente vocato alla produzione.
La polarità che struttura queste opere – il rigido/morbido dei materiali, l’industriale/artigianale della resa cromatica, l’assetto form/antiform delle componenti – parla il linguaggio della crisi. Ma crisi di chi? Crisi di cosa? Nella radice della parola crisi, dal verbo greco krino, c’è l’idea del dover scegliere, e c’è il rimando a una scissione quando non addirittura a un pericolo.
Ecco, prima ancora che nel cuore del deserto, siamo nel cuore di una prassi che mi sembra familiare per Costanzo: la messa in scena di una situazione di crisi. Due opposti, probabilmente in cerca di conciliazione, costruiscono una drammaturgia della scelta, senza poter celare, inevitabilmente, l’urgenza di un disagio. Penso ad esempio al riuscitissimo The desease of more, che tematizza in qualche modo la perdita del metron, del senso della misura, raccontando metaforicamente dell’odierna incapacità di trovare soddisfazione nei risultati raggiunti e dell’insana, continua, ricerca del more, del “di più”. Nella dinamica istituita tra le due aste di ottone che marcano un angolo della galleria, eleganti nella fragilità della loro postura, instabili nel loro tentativo di superarsi in altezza, preziose ma precarie nel loro contendersi un primato, l’artista scolpisce un ritratto dei nostri giorni e delle nostre relazioni. Lo spunto lo desume dall’ambito sportivo, la definizione della “malattia del di più” [the desease of more] appartiene al rinomato allenatore di football Pat Raley, che racconta come il fallimento delle squadre più forti non derivi dalle sconfitte in campo ma dalla degenerazione delle dinamiche interne. Ma è evidente che per l’artista si tratta di un escamotage per parlare di un tratto distintivo della nostra società, che qualcuno ha ben definito la «società dell’insoddisfazione».1 Il tono di Costanzo, però, non è quello del castigatore di costumi, non c’è nella sua opera un piglio savonaroliano, la questione è posta in modo sottile, liminare, ma non per questo meno pungente, perché su quel tapis roulant edonico di cui egli parla appoggiandosi alla nomenclatura psicologica ci siamo sopra tutti, ogni giorno... Quelle aste arpionate, oltre tutto, sono belle; esteticamente parlando, la loro fragilità è tutt’altro che un disvalore e la loro presenza sull’angolo potenzia l’aggetto del pilastro, ne sottolinea l’ingombro, la possanza, conquista una centralità espositiva. Viene messo in campo, dunque, un processo di ambiguazione che non lascia spazio a risposte ordinarie. C’è un’indeterminatezza che costringe all’introspezione.
Su quello stesso angolo e su quella stessa arcata, un paio di anni prima l’artista aveva posizionato un altro dei suoi lavori a mio avviso più significativi, Indagine sulla curvatura. Questo a dimostrazione che un’ulteriore caratteristica della sua operatività è la costruzione di senso in una stretta triangolazione tra l’opera, lo spazio architettonico e un terreno di significazione lasciato sempre volutamente poco definito, reticente alla esplicitazione degli intenti, auspicando che quella sottrazione possa funzionare come stimolo al pensiero, che quella riduzione possa divenire punto di incontro con l’altro, inizio di una condivisione, di una ricerca comune.
Sul piedritto della volta, Costanzo colloca il calco di un arco di luminaria, nascondendovi all’interno dei pensieri sul mare accumulati lungo gli anni, che riporta anche, a pennarello, sulla calotta di vetro di piccole lampadine abbandonate a terra. Di nuovo un meccanismo binario di opposizioni nella scelta degli elementi e dei processi che compongono l’installazione (ad esempio il calco per la luminaria – sottratta al presente, collocata in una sospensione temporale – e il readymade per le lampadine, presenti e fragranti), ma soprattutto di nuovo una relazione sostanziale con la morfologia del luogo e una indisgiungibile triangolazione di nessi, in cui il vero protagonista – che mi pare ravvisabile nello svuotamento di pathos inflitto al folklore e nel conseguente slittamento di quel pathos su un piano memoriale – viene anche in questo caso ambiguato mediante uno sbilanciamento operato dal titolo, che estroflette il focus tematico sulla curvatura della volta anziché sui possibili contenuti generati dalla luminaria. In realtà quest’installazione mette in campo il peso di una perdita, rimandando agli scenari odierni della festa popolare, alla crisi del rapporto col sacro e al vuoto disarmante che ne deriva. Disarmante, d’altronde, quanto l’innamorarsi di un computer (I'm yours and I'm not yours, 2023).
Ora possiamo tornare ai deserti, avendo constatato la necessità non solo di interrogarsi sul presente ma di voler condividere con gli altri questo percorso controcorrente di quotidiano riposizionamento nel mondo.
Tra gli appunti di Anna Harendt per una lezione che tenne nel 1955 presso la University of California di Berkeley si legge: «Solo da coloro che riescono a sopportare la passione per la vita nelle condizioni del deserto, ci si può aspettare che raccolgano dentro di sé quel coraggio che è alla radice dell’agire, di tutto ciò che fa sì che l’uomo diventi un essere agente».2 La metafora del deserto, insieme a quella opposta di oasi, torna di frequente nei saggi della filosofa tedesca (naturalizzata americana) per dare una lettura della condizione inospitale della contemporaneità. È il deserto dei totalitarismi, il deserto dei campi di sterminio, il deserto lasciato dalla bomba atomica, ma è anche il deserto della metropoli che ha eroso le relazioni fra gli umani e ha reso possibile che si facesse strada un’inautenticità dell’esistere. L’oasi, al contrario, è evidentemente metafora dell’energia che permette di resistere nel deserto, è fonte di vita, purché si sventi il pericolo di isolarvisi nell’impossibilità di sopportare la durezza dell’esterno. Ma si può intendere il deserto anche come luogo dell’azzeramento e dunque come incubatore della possibilità del nuovo, come terreno da cui ricominciare.
La sovversione della relazione lavoro/ozio sulla quale Costanzo incardina i suoi deserti, oltre a porre la questione della “cronofagia”3 che affligge il mondo globalizzato, apre una finestra su una serie di questioni interrelate che tornano a riguardare il modo di intendere il concetto di lavoro, il concetto di ozio intellettuale, quello di tempo libero, tutti ambiti ampiamente studiati fin dall’Ottocento e oggi di nuovo all’ordine del giorno nell’era del capitalismo totalitario. Le griglie/ gabbie dei suoi deserti, seduttive nella loro cromia rassicurante e nell’accordo con il colore della materia morbida che ospitano, non coincidono con la gabbia d’acciaio di Weber ma per qualche verso la presuppongono, seppure per ridiscuterla.
I deserti di Costanzo potrebbero essere il territorio in cui si rischia nietzschianamente di rifugiarsi, fuggendo da tutto e da tutti, protetti dalla propria, seppur aspra ma autentica, solitudine; oppure potrebbero, più probabilmente, essere il suolo da cui ripartire, quello spazio dell’azzeramento dal quale provare a rivendicare forme di esistenza più vivibili e attivare percorsi di revisione dei valori sociali, tra i quali, ad esempio, quello stesso del lavoro. Il recente Lavorare meno, lavorare meglio, non lavorare affatto, di Serge Latouche, testimonia, tra gli altri, di come da più parti si stia ripensando il concetto di lavoro nella società globalizzata.
Dunque nei lavori di Costanzo deserto e oasi potrebbero coincidere, il che giustificherebbe la qualità estetica che li caratterizza, privi come sono di ferite manifeste, di strappi evidenti, di disarmonie. Senza contare che nella mostra Accumulare il deserto (On the Contemporary, Catania, 2022) sono stati posti in dialogo con piccole sculture ceramiche che come splendidi grumi di terragna umanità sono chiamate a fare i conti con la potenza seduttiva e simbolica di un soffice bianco di cotone artificiale che fa pensare a un vuoto ricercato e costruito come un dono.
Nella contrapposizione tra lavoro e ozio, tra agire e non agire, tra produrre e contemplare, l’opera d’arte quale posizione può, o vuole, occupare? Di fatto subisce la stessa compressione spazio-temporale di tutto il resto e quindi ragionare sulla ri-temporalizzazione dell’agire in questa nostra società dell’accelerazione significa necessariamente problematizzare anche la vita e le ragioni dell’opera d’arte (oltre che la sua condizione di asservimento al rigido sistema di mercato globalizzato).
D’altronde Costanzo torna ripetutamente sulla questione del tempo, che affronta da diverse angolazioni. La implica ma la lascia sullo sfondo in Indagine sulla curvatura, la tematizza come forza in campo nei Deserti, la pone in primissimo piano in Allegoria del giorno, dove attraverso un complesso meccanismo di correlazioni ne fa la ragione stessa del peso delle sculture.
Ci affidiamo allora a questo comune denominatore della riflessione sul tempo per inoltrarci, finalmente, nell’atmosfera rarefatta di Hey Siri, perché sembrerebbe di poter dire che è proprio a partire dalla nuova condizione antropologica in cui ci troviamo a vivere – determinata da quella compressione spazio-temporale di cui parlava David Harvey già nel 1989 – che prende le mosse il ragionamento svolto in mostra.
Il titolo, a differenza di altre volte, è volutamente esplicito. Forse a compensare il fatto che il contenuto del lavoro potrebbe risultare, a un primo acchito, meno afferrabile che nelle mostre precedenti.
Ritroviamo le geometrie rigide dei deserti, anche se mentre in quel caso si poteva rimanere nell’incertezza di pensarli come sculture a parete o come quadri-oggetto, in questo caso è evidente che l’artista ha deciso di approdare al regime dell’immagine pittorica. La griglia metallica colorata diventa ora una lamiera piatta, compatta, che può accogliere un pittoricissimo giallo o un profondo materico nero, a tutti gli effetti dei monocromi. Ma quello nella pittura non è un salto nel buio; Costanzo si è espresso per anni mediante quadri e disegni. Il bisogno di tornare a lavorare su un’idea di pittura credo abbia a che fare con la necessità di calarsi fino in fondo nel tessuto problematico messo in atto dalla mostra, di mettersi in gioco con qualcosa di veramente personale.
È evidente, infatti, che queste opere raggelano la temperatura del registro espressivo, e per non scadere in una impersonalità che non gli appartiene, l’artista non può che ancorare i lavori a sé stesso, alla propria realtà. Ecco quindi il ricorso alla pittura, che conosce bene e che ha praticato per tanto tempo, ecco la presenza dei suoi oggetti, un sigaro, un accendino, degli scontrini, un foulard, che trovano appoggio su quei rettangoli zincati come a rimarcare la familiarità di un gesto routinario, distratto.
Dov’è allora il segreto, l’anima, di questo gruppo di sottili, regolari volumi in lamiera ravvivati soltanto da qualche oggetto e qualche sottile feritoia?
L’anima è nel livello di intimità al quale Costanzo riesce a spingere la riflessione sul rapporto che siamo arrivati ad intrattenere con i dispositivi tecnologici e con l’intelligenza artificiale, con Siri, Alexa, quegli strumenti esosomatici, direbbe Carlo Sini, o quelle protesi, avrebbe detto Marshall McLuhan, che hanno modificato antropologicamente le nostre relazioni fisiche e psichiche con il mondo.
L’anima di questa mostra sta nel coraggio di guardare in faccia una dipendenza personale e collettiva e nel riconoscere alle macchine un ruolo così centrale da soffermarsi a pensare al loro respiro: le fessure praticate sulle superfici dei Sospesi riproducono infatti gli schemi dei sistemi di aerazione/dissipazione dei dispositivi tecnologici – dagli impianti di condizionamento ai frigoriferi ai forni ai computer – e non è un caso che all’interno di questi Sospesi sia stato lasciato uno spazio vuoto, nero, silenzioso, un’incognita da offrire all’immaginazione. Se infatti da una parte Costanzo sembra chiedersi cosa ne sia, ormai, del nostro “tempo marginale” – la definizione la prende dal Dorfles de L’intervallo perduto –, cosa ne sia di quei tempi residuali che dovrebbero costituire la nostra pausa dagli impegni, dall’altra non nasconde l’interesse per ciò che accade all’interno di quella dimensione interstiziale situata tra i microchip e l’esoscheletro di uno smartphone, tra il corpo refrigerante e la calotta di un frigo. D’altronde il Sospeso #1, dalle cui griglie esce una bellissima extension castana, incarna perfettamente la situazione di estremizzazione di un processo alienatorio: psicologi e sociologi riferiscono che ci sono bambini che la mattina, uscendo di casa per andare a scuola, salutano Alexa. Per molto tempo tutto questo è stato appannaggio di film di fantascienza più o meno rassicuranti, più o meno inquietanti; oggi quella soglia tra realtà e finzione si va assottigliando in una quotidianità che appare pronta a fare un salto capitale, senza che si sia sufficientemente riflettuto sull’altra faccia di tale definitiva rinuncia all’umano.
La mente va al passato, a quella generazione di artisti che si è trovata a confrontarsi con le trasformazioni incalzanti introdotte da una tecnologia che entrava nelle case e stravolgeva la qualità e i ritmi delle esistenze. Come non pensare ai seminari su arte e tecnologica organizzati da Reyner Benham all'ICA di Londra negli anni '50, come non rammentare il fascino esercitato sugli artisti dal tubo catodico, pensiamo a Fontana, agli Spazialisti, alla loro capacità di confrontarsi con il mistero che quell’oggetto rivoluzionario portava con sé. Come non ricordare Leonardo Sinisgalli, la sua «Civiltà delle Macchine» e il suo tentativo di costruire un ponte, da poeta, fra gli ingranaggi delle macchine industriali e la morfologia delle opere degli amici astrattisti. Collegando, per altro, tutto questo con le cosmologie celesti e guardando il mondo con uno «sguardo dal di fuori» avrebbe detto anni dopo Alberto Boatto. Ma la condizione era diversa, il capitalismo di quegli anni non aveva ancora pienamente espresso la mostruosità dei suoi risvolti, quindi, malgrado gli avvertimenti dei più sensibili – che di fatto riuscirono a preconizzare la nostra condizione presente – ai più sembrava che quel mostro si potesse contenere, indirizzare, che gli scenari più nefasti si potessero in qualche modo esorcizzare. Mi sembra che Costanzo esprima oggi un analogo sentimento di sgomento e di fascinazione, di curiosità e di preoccupazione, di leggerezza e gravità. Lo dice in modo sintetico l’istallazione a terra che fa da perno alla mostra. Racconta di un fondersi. C’è una struttura convessa in lamiera, ci sono due piumini al suo interno e insieme due lunghe aste che rimandano al campeggiare in una tenda. L’idea è quella di una notte condivisa all’aperto, e quella calotta/tenda ha le stesse feritoie dei dispositivi tecnologici. È un’immagine evocativa, poetica e allo stesso tempo allarmante. Ci troviamo dentro la vastità del cielo, dentro l’indicibilità dell’emozione umana dell’unirsi, ma anche di fronte alla familiarità con una dipendenza. Ma quando comincia questa dipendenza e soprattutto come leggerne la deriva? Qualche autorevole filosofo, d’altro canto, ribadisce come l’umano stesso sia figlio del proprio lavoro, ossia figlio della tecnica, e non viceversa; ci ricorda che l’umano è un automa e che il linguaggio è una macchina, è tecnica. La questione si complica...
Le opere in mostra raccontano anche di esoscheletri, di gusci, di strutture protettive; l’artista ne ha già parlato altre volte, soprattutto quando ha affrontato le relazioni tra gli umani. Struggente quella mutuata dal film Her che ha dato vita all’installazione I'm yours and I'm not yours (2023), così come è struggente quella suggerita, in mostra, dalle cartine argentate dei chewingum che riportano messaggi scritti a mano, apparentemente freschi, leggeri, nell’immediatezza del loro impatto, ma in realtà completamente inautentici, perché tratti dalle comunicazioni standardizzate suggerite nelle App di incontri. Il titolo del lavoro, Friendzone, sta lì a rimarcare una relazionalità giovanile diffusa, così come a una condizione giovanile rimanda l’interazione con Chat GPT di cui rimane traccia sul retro dei fogli di sala, dove in 102 versioni uniche sono state riprodotte le risposte fornite dall’A.I. alle richieste postegli dall’artista di scrivere una preghiera, una barzelletta e una favola.
Non si tratta, allora, di riflettere soltanto sulla nostra dipendenza digitale, si tratta di occuparci della desertificazione relazionale che incalza e di quel vuoto incolmabile che può condurre a innamorarsi di Samantha (cfr. Her).
Ma di nuovo Costanzo non giudica. Sa bene non solo di non essere in grado di dare risposte ma soprattutto che non è mai stato il compito degli artisti. Semplicemente, si pone al fianco dello spettatore, guarda dentro quelle fessure, immagina il respiro delle macchine, gioca a interagire con Chat GPT e si ritrova a interrogare la propria routine e la qualità del proprio tempo marginale, chiedendosi come poter schivare il pericolo di rimanere intrappolato nel deserto mentre rischia di arrivare una ingovernabile tempesta di sabbia (Harendt).
1 Di “società dell'insoddisfazione” hanno parlato Agnes Heller e Ferenc Fehér in La condizione politica postmoderna, Marietti, Roma 1992 (prima edizione
Agnes Heller e Ferenc Fehér, The Postmodern Political Condition, Columbia University Press, 1988).
2 Maria Felicia Schepis, Tra il deserto e le oasi. Il luogo della cittadinanza attiva in Hannah Arendt, in «Heliopolis. Culture, Civiltà, Politica», anno X,
n.1/2012, p.101.
3 In Cronofagia. La contrazione del tempo e dello spazio nell’era della globalizzazione (Guerini e Associati, Milano, 2003) sono raccolti, a cura di Gabriella
Paolucci, gli atti del convegno su «Rapidità. La contrazione del tempo e dello spazio nella vita quotidiana», tenuto presso l’Istituto Universitario Europeo
(Firenze) nel gennaio del 2002.
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